Cos’è
la compassione? Lettera ad un'amica
Di
Annalisa Barbier
Orchidea erotica, acrilico di Daniela Lorusso |
Il
termine compassione deriva dal latino: [cum]
insieme [patior] soffro. La
sua radice semantica è quindi portatrice di un significato ampio
e positivo: la compassione è la partecipazione sincera ed amorevole
alle sofferenze dell’altro, e non va confusa con la pena,
sentimento quest’ultimo che viene “concesso” dall’alto verso
il basso, portando con sé un giudizio di
valore che si realizza in termini negativi nei confronti di colui che
di tale pena è fatto oggetto.
Il Buddhismo fa
di questo concetto uno dei capisaldi del suo apparato filosofico: per
il buddisti la compassione è il
sentimento profondo che porta a desiderare il bene per
ogni essere senziente. Nasce dalla consapevolezza che tutti gli
esseri viventi sono in questo mondo uniti, interdipendenti, continui
e contigui.
Nella sua accezione più
ampia, la compassione è la scorciatoia verso l’altro, verso la sua
intimità, la sua anima e le sue profondità remote: quei luoghi in
cui nessuno è diverso dall’altro. In questo senso, la compassione
rappresenta il sentimento salvifico e definitivo che ci distingue
dall’animale, la possibilità ultima per una comunione autentica
che non sia solo di sofferenza ma anche di gioia ed entusiasmo.
Mi
piace ricordare la frase di Paul
C. Roud, secondo
il quale: “Compassione
e pietà sono assai differenti. Mentre la compassione
riflette l’anelito del cuore a immedesimarsi e soffrire con
l’altro, la pietà è una serie controllata di pensieri intesi ad
assicurarci il distacco da chi soffre”.
E’ interessante
notare come, dalla considerazione delle sofferenze altrui, originino
due sentimenti così profondamente simili nella modalità
dell’espressione e così drammaticamente diversi nella finalità
ultima: la compassione ci vuole avvicinare senza paura all’altro
in quanto nostra immagine riflessa. La pietà ce ne vuole
distanziare, vuole esorcizzare l’orrore della sofferenza, che
nell’altro è tanto reale da temerne il contagio.
Forse - mi dico –
è proprio questo l’elemento differenziante in grado di
giustificare uno strano fenomeno nel quale spesso ci si imbatte: la
compassione che cede il posto alla pietà. Il caldo conforto di un
abbraccio che cede il posto al gelo dello spavento.
Mi
spiego meglio. E’ facile provare sentimenti di partecipazione
affettuosa e viscerale nei confronti dei meno fortunati, di quelli
che - loro malgrado – sono divenuti portatori della
valenza meno bella della vita con il loro carico di dolore,
abbandono, miseria, malattia, morte, solitudine: in questo caso la
distanza sociale, geografica, culturale è il cuscinetto che permette
una partecipazione politically
correct, ostentata e
“ammortizzata”. Meno facile è comprendere e condividere le
ragioni del disagio quando questo si fa meno evidente, meno plateale,
in qualche modo troppo vicino al contesto di vita dell’osservatore:
è più facile compatire il barbone all’angolo della strada che il
collega depresso, la moglie che tradisce, la solitudine che cresce
nella vita apparentemente “normale” di ogni giorno, e
addolora e consuma.
Forse è per questo,
cara Paola, che accade ciò che avevi notato: si compatisce
facilmente ed ostentatamente chi soffre a distanza da noi (una
distanza fisica o astratta, rassicurante) e si fatica a provare una
vera, profonda pietà per chi ci soffre accanto di pene più
quotidiane.
La paura, credo, sia la
differenza: paura che la compassione ci avvicini troppo e
pericolosamente allo stesso destino di dolore, come un oscuro ponte
silenzioso.
Ma è soltanto la mia
riflessione minima e mi piace pensare, come scrisse Pino Caruso, di
poter esprimere pensieri che non condivido…
Annalisa
Barbier, psicologa www.annalisabarbier.com
Bell'articolo Annalisa! Molto preciso nella esatta distinzione e descrizione dei sentimenti. La disciplina del distacco, orientale, è diversa dall'impulso alla partecipazione tipico dell'occidente quando è ai suoi livelli migliori. Oggigiorno la difficoltà nel passare dalla compassione alla pietà ematica e partecipe sta in quella chiusura individualistica di cui ho parlato in un mio libro. Si tratta di un ossessivo riferimento egoico, un guscio autistico che accompagna l'individuo moderno come un'ombra. Come la sua Ombra. Nicola
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