La ricerca dell’amore
Quando inizia l'amore, fotografia di Gina Di Dato |
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Premetto
che il mio discorso non mira a fornire risposte o a delineare percorsi certi.
Forse lascerò in eredità più interrogativi che concetti, ma, in fondo, quello
che più m’importa è che qualcuno, fosse anche una sola persona, possa
considerare le mie riflessioni come suo personale trampolino di lancio per
svilupparne di proprie. Ho imparato che le questioni di una certa rilevanza vanno affrontate con
cautela, ma anche con apertura e coraggio, senza pretendere di raggiungere
nell’immediato un sapere valido per tutti e per sempre. In Filosofia Platone,
più di duemila anni fa, nel suo Simposio toccava il cuore della questione
mettendo a confronto idee e prospettive diverse. Interessante, in particolare,
il discorso della sacerdotessa Diotima, riportato da Socrate, in cui l’amore
non è altro che desiderio di eterno possesso del Bello e si configura come la
ricerca di quel Bene di cui siamo poveri, quel bene che cerchiamo innanzitutto
nella bellezza estetica, ma che possiamo contemplare solo con l’intuizione di
qualcosa di più grande e che va oltre la sensibilità fisica. Questa è una
visione sublime, un’idea magica dell’amore, che forse mal si sposa con i
costumi più attuali, dove la ricerca del bello rimane spesso confinata in sé,
recintata nel limbo delle paure inconfessate, che frenano e impediscono di
slanciarsi con tutto il proprio essere. Da qui le prime domande: se l’amore per
la bellezza di un corpo è solo un punto di partenza di un viaggio molto più
importante, allora il discorso di Diotima cosa ci vuol dire veramente? Che
l’importante non è da dove parte o come si sviluppa, ma dove porta quell’amore?
Ciò che conta è la ricerca dell’Amore in Sé, dell’Idea dell’Amore e del Bene,
svilendo la specificità di quella persona, di quella situazione, di quel
legame? Sempre nel Simposio, il discorso di Aristofane mi appare invece più
“romantico”: da che mondo è mondo, ciascuno cerca l’anima gemella, che solo una
può essere perché solo quella è la parte da cui Zeus in origine ha separato e a
cui ci si vuole ricongiungere. Suggestiva come idea. Ma nella fattispecie, cosa
vuol dire? L’opposto di quello che suggerisce Diotima? E allora, se nella vita
non è dato d’incontrare l’altra metà o se la si è “smarrita” strada facendo,
cosa rimane da fare? Soffrire di solitudine? Rifugiarsi in falsi amori che mai
potranno appagare quel bisogno di completezza che sempre attanaglia? Nonostante
la complessità, nei vari discorsi del Simposio una costante mi sembra di
rintracciarla: siamo manchevoli, siamo limitati, poveri, delusi e arrabbiati. E
l’amore trova qui il suo senso, forse. Perché l’amore è quello slancio vitale
che ci spinge ad andare oltre noi stessi, a credere o quanto meno sperare che
ci sia qualcosa che possa dissetare il nostro bisogno di Assoluto. Non è facile
da rintracciare ed è facile sbagliarsi. Ma questo ci abilita ad arrenderci? In
campo psicologico, Sternberg, superando la visione pulsionale di Freud (che
faceva ruotare l’amore intorno al sesso e al bisogno di perpetuare la specie),
presenta un modello trifasico dell’amore, in cui la passione, l’intimità e
l’impegno sono gli ingredienti fondamentali. L’amore vero, completo, dovrebbe
contemplare tutte e tre le dimensioni, ma spesso ci s’imbatte in amori “a
metà”, in cui uno o due di questi fattori manca. Il più delle volte, è lecito
accontentarsi oppure bisogna concludere che l’amore totale è rarissimo e che
bisogna dedicarsi a “costruzioni d’amore”? Oggi, poi, si sente dire spesso che
non dobbiamo cercare nell’altro ciò che ci manca, perché dobbiamo essere già
completi e realizzati in noi stessi. Su questo filone di pensiero, c’è chi
addita l’emancipazione femminile e il nuovo ruolo della donna nella società e
la designa come una delle principali cause del fallimento del rapporto di
coppia. Forse non ha tutti i torti. Se la donna di oggi rivendica una libertà
di pensiero, prima ancora che d’azione, prima inimmaginabile e se persegue la
propria indipendenza a costo di sacrificarle tutto, come può aspirare a vivere
al contempo l’amore vero, che invece sembrerebbe presupporre dipendenza
reciproca, abbandono, altruismo? Forse le donne devono un attimo rallentare la
corsa e assumersi nuove (antiche) responsabilità? Il rischio della coppia non è
forse quello di correre su binari paralleli senza mai sfiorarsi? Costruire una
progettualità comune non dovrebbe essere il cardine di ogni coppia? E poi, è
giusto che tra uomo e donna ci sia sovrapposizione di ruoli oppure è meglio
creare un’interdipendenza in cui i confini siano comunque chiari? Tanti studi
di psicologia parlano infatti di famiglie disfunzionali, in cui
l’invischiamento tra i membri crea disagio e impedisce la crescita reciproca.
Eleonora Castellano, docente e scrittrice
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