giovedì 11 ottobre 2012

La ricerca dell’amore


La ricerca dell’amore

Quando inizia l'amore, fotografia di Gina  Di Dato

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Premetto che il mio discorso non mira a fornire risposte o a delineare percorsi certi. Forse lascerò in eredità più interrogativi che concetti, ma, in fondo, quello che più m’importa è che qualcuno, fosse anche una sola persona, possa considerare le mie riflessioni come suo personale trampolino di lancio per svilupparne di proprie. Ho imparato che le questioni  di una certa rilevanza vanno affrontate con cautela, ma anche con apertura e coraggio, senza pretendere di raggiungere nell’immediato un sapere valido per tutti e per sempre. In Filosofia Platone, più di duemila anni fa, nel suo Simposio toccava il cuore della questione mettendo a confronto idee e prospettive diverse. Interessante, in particolare, il discorso della sacerdotessa Diotima, riportato da Socrate, in cui l’amore non è altro che desiderio di eterno possesso del Bello e si configura come la ricerca di quel Bene di cui siamo poveri, quel bene che cerchiamo innanzitutto nella bellezza estetica, ma che possiamo contemplare solo con l’intuizione di qualcosa di più grande e che va oltre la sensibilità fisica. Questa è una visione sublime, un’idea magica dell’amore, che forse mal si sposa con i costumi più attuali, dove la ricerca del bello rimane spesso confinata in sé, recintata nel limbo delle paure inconfessate, che frenano e impediscono di slanciarsi con tutto il proprio essere. Da qui le prime domande: se l’amore per la bellezza di un corpo è solo un punto di partenza di un viaggio molto più importante, allora il discorso di Diotima cosa ci vuol dire veramente? Che l’importante non è da dove parte o come si sviluppa, ma dove porta quell’amore? Ciò che conta è la ricerca dell’Amore in Sé, dell’Idea dell’Amore e del Bene, svilendo la specificità di quella persona, di quella situazione, di quel legame? Sempre nel Simposio, il discorso di Aristofane mi appare invece più “romantico”: da che mondo è mondo, ciascuno cerca l’anima gemella, che solo una può essere perché solo quella è la parte da cui Zeus in origine ha separato e a cui ci si vuole ricongiungere. Suggestiva come idea. Ma nella fattispecie, cosa vuol dire? L’opposto di quello che suggerisce Diotima? E allora, se nella vita non è dato d’incontrare l’altra metà o se la si è “smarrita” strada facendo, cosa rimane da fare? Soffrire di solitudine? Rifugiarsi in falsi amori che mai potranno appagare quel bisogno di completezza che sempre attanaglia? Nonostante la complessità, nei vari discorsi del Simposio una costante mi sembra di rintracciarla: siamo manchevoli, siamo limitati, poveri, delusi e arrabbiati. E l’amore trova qui il suo senso, forse. Perché l’amore è quello slancio vitale che ci spinge ad andare oltre noi stessi, a credere o quanto meno sperare che ci sia qualcosa che possa dissetare il nostro bisogno di Assoluto. Non è facile da rintracciare ed è facile sbagliarsi. Ma questo ci abilita ad arrenderci? In campo psicologico, Sternberg, superando la visione pulsionale di Freud (che faceva ruotare l’amore intorno al sesso e al bisogno di perpetuare la specie), presenta un modello trifasico dell’amore, in cui la passione, l’intimità e l’impegno sono gli ingredienti fondamentali. L’amore vero, completo, dovrebbe contemplare tutte e tre le dimensioni, ma spesso ci s’imbatte in amori “a metà”, in cui uno o due di questi fattori manca. Il più delle volte, è lecito accontentarsi oppure bisogna concludere che l’amore totale è rarissimo e che bisogna dedicarsi a “costruzioni d’amore”? Oggi, poi, si sente dire spesso che non dobbiamo cercare nell’altro ciò che ci manca, perché dobbiamo essere già completi e realizzati in noi stessi. Su questo filone di pensiero, c’è chi addita l’emancipazione femminile e il nuovo ruolo della donna nella società e la designa come una delle principali cause del fallimento del rapporto di coppia. Forse non ha tutti i torti. Se la donna di oggi rivendica una libertà di pensiero, prima ancora che d’azione, prima inimmaginabile e se persegue la propria indipendenza a costo di sacrificarle tutto, come può aspirare a vivere al contempo l’amore vero, che invece sembrerebbe presupporre dipendenza reciproca, abbandono, altruismo? Forse le donne devono un attimo rallentare la corsa e assumersi nuove (antiche) responsabilità? Il rischio della coppia non è forse quello di correre su binari paralleli senza mai sfiorarsi? Costruire una progettualità comune non dovrebbe essere il cardine di ogni coppia? E poi, è giusto che tra uomo e donna ci sia sovrapposizione di ruoli oppure è meglio creare un’interdipendenza in cui i confini siano comunque chiari? Tanti studi di psicologia parlano infatti di famiglie disfunzionali, in cui l’invischiamento tra i membri crea disagio e impedisce la crescita reciproca.


Eleonora Castellano, docente e scrittrice




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