Il
valzer degli addii
di
Annalisa Barbier
In
questo tempo di precarietà economica, professionale e sentimentale,
si vive accompagnati da un crescente senso di incertezza spesso
associato con l’attitudine al disimpegno, cui fa da sfondo una
società brutalmente egocentrista ed individualista. La figura che
emerge da siffatto sfondo – dipendendo in tutto dalla soggettiva
propensione ad evidenziare e riconoscere alcuni segni piuttosto che
altri – è purtroppo quella di una generale, crescente incapacità
di impegno, costanza e pazienza. Verso se stessi e verso gli altri.
La
progressiva erosione dei passati punti di riferimento socioculturali
ed etici, ha imposto la necessità di trovarne di nuovi; tuttavia
tale tentativo di estensione di senso non ha prodotto, a mio avviso,
risultati capaci di sostenere l’individuo nel suo cammino verso la
realizzazione di sé.
Ne
origina un crescente, strisciante malessere cui è difficile dare un
nome perché è tanto diffuso quanto impalpabile, potendosene
cogliere soltanto le manifestazioni epifenomeniche. Queste riguardano
la vita sociale, relazionale ed interiore, coagulandosi poi in tutte
quelle situazioni ambigue, sospese ed indecise, in cui appare
implacabilmente chiaro quanto sia difficile e allo stesso tempo
necessario, ri-costruire un sistema di riferimenti semantici,
simbolici e di significato all’interno del quale trovare finalmente
un senso coerente, un filo di Arianna che ci riporti fuori dal
labirinto. Finalmente a casa.
La
vita di relazione, nella fattispecie quella delle relazioni
sentimentali, è uno degli ambiti in cui questo disagio appare
maggiormente evidente.
Si
ha l’impressione che sempre più persone si trovino – loro
malgrado - a far girare una giostra di “incipit” amorosi poi
incapaci di trasformarsi in relazioni durevoli e gratificanti.
Rapporti in cui i partner non sono più capaci di sviluppare una
fiducia sana, oscillando in maniera destrutturante tra fiducia
idealizzata e sfiducia totale (idealizzazione e svalutazione ne sono
aspetti complementari), in cui le spesso inconsapevoli dinamiche
individuali prendono il sopravvento sulla capacità/necessità di
aprirsi all’altro, in cui il relativismo etico - ormai assurto a
valore assoluto - crea mostri di egocentrismo ed incoerenza, avvolti
su se stessi in una alienante spirale di accuse e giustificazioni.
Se
questo è il panorama che mi trovo spesso ad osservare nella mia
veste professionale, non posso fare a meno di ravvisare anche quali
ne sono gli effetti sul singolo individuo: da un lato, il crescente
senso di non appartenenza, la confusione, la paura, l’insoddisfazione
e la frustrazione portano molte persone ad abdicare alla gioia
dell’intimità.
Dall'altro,
la ricerca ossessiva di stimoli sempre nuovi (che si riveleranno
sempre insufficienti), i ripetuti tentativi di stabilire il rapporto
“ideale” e la caccia sempre aperta al partner perfetto, inducono
ad una sorta di “ripetitività erotico-sentimentale” in grado
soltanto di incrementare quella frustrazione e quel senso di
impotenza e delusione dal quale si è tentato di fuggire, e che
difficilmente permettono di aprire le porte ad una vera intimità.
Da qui il titolo di
questo articolo, mutuato da un bellissimo romanzo di Milan Kundera.Un
tempo di addii ripetuti e di ripetuti inizi, che rischia di elevare
il consumismo sentimentale imperante ad nuova emergente
forma di doping emotivo che, come tutte le droghe, dà dipendenza ma
non è in grado di curare.
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